venerdì 10 febbraio 2017

DEMOLITION di Jean-Marc Vallée, una recensione invisibile


Ci sono film che vengono comunemente definiti "invisibili", produzioni non blasonate dai media e snobbate da un gran numero di sale cinematografiche, che passano inosservate alla maggioranza del pubblico medio e che per questo non raggiungono un sufficiente bacino d'utenza per affermarsi insieme alle opere più conosciute e maggiormente distribuite anche al di fuori della nazione in cui sono state realizzate.
Demolition del francese Jean-Marc Vallée è una di queste pellicole, e come spesso accade si dimostra una sorpresa affascinante.

Davis, il protagonista di questo piccolo grande film interpretato da Jake Gyllenhaal , perde la moglie in un incidente stradale. è giovane, di bell'aspetto, brillante nel suo lavoro nella finanza, regolare nelle attitudini di vita: possiede una bellissima casa, è sposato con una bella ragazza e ha un lavoro che molti invidierebbero.
Proprio all'apice di una vita come quella appena descritta, Davis perde la moglie, e quella che potrebbe sembrare la fine è in realtà un vero inizio, la miccia del detonatore che esplodendo demolirà (letteralmente) la vita di quest'uomo che scopre che niente di ciò che ha è autentico, ma solo ed esclusivamente quello che il fato e la ruota degli eventi gli hanno concesso.
Non c'è stata fatica in ciò che Davis ha ottenuto nella prima metà della sua vita, non ci sono state delusioni scottanti o vittorie guadagnate col sangue e il sudore, c'è stato solo l'accettare passivamente ciò che era facile e che in qualche modo risultava più conveniente.
è facile mettere un dollaro e venti in un distributore e aspettare che il nostro pacchetto di noccioline scenda nelle nostre mani, ma quel giorno, il giorno della morte di sua moglie, Davis non riesce ad avere le sue noccioline, e non ha nessuna intenzione di inserire un altro dollaro e venti, nonostante sia incredibilmente facile.
Dunque Davis scrive una serie di lettere di reclamo all'azienda del distributore, in cui alla sua lamentela aggiunge anche tutte le sue violentemente sincere impressioni su quello che gli sta succedendo e su quello che gli è successo nella vita.
La forma passiva del verbo è d'obbligo, ma le cose sono destinate a cambiare: dall'altra parte delle lettere c'è Karen, interpretata da una Naomi Watts brava come in poche altre occasioni, responsabile del servizio clienti dell'azienda di cui sopra, che viene toccata nel profondo dalla sincerità sconcertante delle lettere di Davis.
Karen è il contraltare di Davis: sfortunata, depressa, in cerca di qualcosa che le dia per una volta la sensazione di essere arrivata da qualche parte per pura fortuna, senza fare fatica, quasi per caso.
Inizia così un rapporto splendido di mutuo ancoraggio, mentre Davis decostruisce tutto ciò che ha intorno smontando letteralmente ogni cosa che può (compresa la sua intera meravigliosa villa), Karen e il suo giovane figlio (che comincia a capire la propria omosessualità) si attaccano a questo uomo perso in se stesso.

Il film è diretto da Vallè, già autore dello splendido Dallas Buyers Club, con uno stile che decostruisce anche il reparto filmico, le inquadrature non sono mai ardite ma piuttosto dimesse e accompagnano il ritmo della vicenda senza farsi mai eccessive protagoniste, concedendo ai visi degli attori il potere di veicolare la loro crescita, dettata dall'incedere di un montaggio in crescita con le loro interiorità. C'è tanta rabbia in questo film, insieme ad un infinita tenerezza; c'è la società americana, chiusa dentro al suo tanto decantato sogno infranto, c'è il potere mistificatore delle piccole e grandi bugie della vita di coppia, la rivalutazione postuma di quei piccoli gesti quotidiani che con troppa facilità vengono archiviati e dati per scontati.

Questo film parla della vita, la vita di ognuno di noi, ed è insieme un monito a non sprecarla e un invito a non considerarla granitica nelle sue provvisorie certezza.

martedì 24 gennaio 2017

Dedicato a Mimosa



Entrò nella classe come un fantasma, magra come non mi era mai successo di ravvisare in nessun altro essere vivente, segnata in viso, con gli occhi acquosi e così teneri da spalancare il cuore, e le mani nodose a cingersi il ventre, come se stesse soffrendo.
Si chiamava Mimosa, questo lo ricordo, e fu la mia supplente di italiano per qualche tempo in prima media.
Ricordo distintamente che era primavera, perché dalla grande finestra a soffietto della classe penetrava la luce del sole di maggio, ma soprattutto perché la finestra era completamente spalancata e non sentivo freddo.
la finestra era spalancata perché Mimosa faceva lezione da fuori, essendo che eravamo al piano terra di una piccola scuola di quartiere, così poteva accendersi una Diana Blu dopo l'altra.
I miei compagni erano tutti intenti in risatine e sguardi attoniti, io invece ero affascinato, perché Mimosa non faceva solo tutte queste cose "strane", Mimosa ci parlava della letteratura italiana con amore per la materia, e anche questo fino ad allora non mi era mai capitato di ravvisarlo in un insegnante.
Tutto ciò che c'è da sapere sull'anticonformismo e l'autodeterminazione io ho cominciato ad impararlo con Mimosa, ma soprattutto con Mimosa ho imparato tutto ciò che c'è da sapere sulla critica.

Un giorno come compito a casa ci disse infatti di scrivere un commento su "Il Sabato del Villaggio" di Giacomo Leopardi.
Io, che già mi crogiolavo nella mia infinita abilità di scrittore, scrissi un panegirico agiografico dell'autore dimenticandomi completamente della poesia e conclusi in modo ridicolo con "...complimenti a Leopardi per questa magnifica poesia.".

Mimosa traccio un solco rosso e profondo, poi scrisse "Leopardi non ha bisogno dei tuoi complimenti".

Ovunque tu sia, grazie Mimosa.

mercoledì 18 gennaio 2017

Sherlock non doveva finire... o forse si.


Orfano.
Così mi sono sentito dopo il finale della quarta stagione di Sherlock, che ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio finale, capace di chiudere trame e sotto-trame imbastite negli anni, e di regalarci una dose di emozioni sufficiente a sentirci davvero soddisfatti.
Ma questa soddisfazione dura solo un attimo, perché dopo che Cumberbatch e Freeman si bloccano in un fermo immagine segnando indelebilmente la storia della serialità televisiva (e internettiana) quello che si sente è un vuoto.
Si perché la cosa più bella di Sherlock (che sofferenza usare il passato), non erano le indagini complesse e magistralmente sceneggiate, la regia moderna e adrenalinica, le ambientazioni in bilico tra presente, passato e futuro... la cosa più bella di Sherlock era il rapporto tra l'investigatore più famoso del mondo e il suo fidato aiutante, il Dottor Watson.
Quello che si crea tra i due protagonisti è un rapporto che trascende completamente qualsiasi forma di sentimento, compreso l'amore (molto spesso sopravalutato), ed è il perno centrale di tutta l'epopea che compone l'affresco delle quattro stagioni di Sherlock.
Il modo in cui, progressivamente, questi due infinitamente bravi attori sono riusciti a trovare un alchimia  perfetta a livello recitativo è direttamente speculare al crescere del loro rapporto all'interno della storia narrata, e questa progressione continua coinvolge lo spettatore fino a toccare le sue corde emotive più profonde, perché quel che succede tra Holmes e Watson è davvero magico, e solo un cuore di ghiaccio non può esserne scalfitto.
Sherlock ha alzato in questi anni l'asticella di come si realizza una serie, introducendo la formula dei tre episodi di durata superiore ai sessanta minuti, e dando il via a  una forma di sintesi narrativa fino ad allora inedita (o quasi) per un prodotto televisivo (o internettiano appunto).

E allora perché il "forse" del titolo, se era tutto così perfetto perché non darne ancora a un pubblico che non aspetta altro?
la mia risposta è questa: perché è difficile.
Sherlock è difficile, non così riproducibile nella sua struttura come potrebbe sembrare (caso, indagine, soluzione, crescita dei personaggi), perché senza originalità Sherlock smette di essere quello che è e diventa il suo esatto opposto, ovvero un opera pretenziosa che nel tentativo di stupire finisce per annoiare.
Ecco, forse preferisco che rimangano lì, perennemente bloccati nella loro plasticità eterna, un caso mai narrato dopo l'altro.

venerdì 13 gennaio 2017

JAWS: Memories from Martha’s Vineyard - RECENSIONE


Per la prima volta su questo blog mi accingo a recensire un libro, e l'occasione è speciale: Jaws - Memories from Martha's Vineyard di Matt Taylor è infatti il più completo ed esaustivo compendio di fotografie, storie, profili di attori e comparse, eventi produttivi e storie sulla creazione del film più significativo per la mia storia personale, per l'appunto Lo Squalo di Steven Spielberg.
Matt Taylor è un giovane uomo che vive da generazioni a Martha's Vineyard, un isola del New England dove nel 1974 si svolsero le riprese del capolavoro di Steven Spielberg.
Per anni ha collezionato qualsiasi cosa fosse legata alla pellicola, fino a che non ha avuto un'idea a dir poco geniale: riunire tutte le fotografie e le storie legate alla realizzazione di Jaws realizzate dagli isolani in quei roboanti mesi di riprese, e la mole di materiale che ha raccolto lo sorprese a tal punto da voler realizzare quello che a tutti gli effetti è uno dei migliori libri di backstage che siano ma stati creati.

Una delle divertentissime foto presenti con protagonista il famigerato
squalo meccanico che tanti guai causò a Spielberg.
Il tomo, di cui potete leggere tutte le caratteristiche e godervi una preview QUI , si presenta come un tomo dalle dimensioni ragguardevoli (296 pagine) e dal formato rettangolare, al suo interno le fotografie sono stampate su una carta di ottima qualità e il comparto redazionale è incredibilmente ricco di centinaia di testimonianze, oltre che di rare interviste a personalità fondamentali nella produzione del film, primo fra tutti il production manager Joe Alves.

Quello che si scopre leggendo questo librone è che l'isola di Martha's Vineyard venne letteralmente sconvolta dall'arrivo di Hollywood, e che tutto, dall'economia fino alla tranquilla quotidianità dei pescatori segnati dal sole e dalla salsedine, non fu più lo stesso dopo quel 1974. Le storie di gente normale, colta nella sua quotidianità, diventano tasselli di un puzzle in cui il film passa addirittura in secondo piano, per mostrarci un dipinto umano strabiliante, e un modo di fare cinema che forse è in parte scomparso, soprattutto a Hollywood.
Imprescindibile l'acquisto (lo reperite con facilità su Amazon) per tutti gli appassionati di Jaws, ma anche per chi ama il cinema e vuole andare davvero scoprire come funziona l'ultima magia del secolo scorso.